sabato 13 agosto 2011

Ufficio insulti capitolo primo: ditemi il perché

Eccoci arrivati al secondo appuntamento con lo scrittore-filosofo, l'enfant terrible della nostra agenzia, così amiamo definirlo noi. La sua rubrica è un viaggio provocatorio nel mondo della scrittura e degli scrittori, un metaletteratura ironica e graffiante, un vero Diogene, il cinico che abbaia... e morde.




Ditemi il perché

C'era una volta Omero che se ne andava in giro per le corti greche o ellenofone (spero si dica così altrimenti facciamo finta che è un neologismo) e, accompagnato dalla sua cetra (questa volta credo di essere sicuro che fosse una cetra a cinque cori) narrava le vicende di uomini e divinità che promiscuamente interagivano a crear casino. Ne vengono fuori l'Iliade e l'Odissea.
Lo so, adesso qualcuno vorrebbe mettersi a ciarlare su chi le ha scritte, su chi le ha inventate, sul fatto che Omero non era cieco e che forse non è mai esistito. Tutte queste cose ve le risparmiate per qualcun altro perché io voglio dire cose più sensate. A me, in qualità di fine e raffinatissimo cesellatore di tragedie e affini, piace pensare che Omero sia davvero esistito, fosse cieco e che abbia scritto di suo pugno l'Iliade, dell'Odissea fate voi.
Il motivo di questa necessità non è ben chiara nemmeno al sottoscritto quindi, magari, spiegatemelo voi il perché. Fatto sta che immaginare sto vecchio invalido e canterino, in giro a raccontar storie, con in cambio "vitto, alloggio e stiratura", mi fa viaggiare con la fantasia. Quanto doveva essere più semplice allora vivere per uno scrittore, anche invalido, che doveva solo fare lo sforzo di ripeter sempre le stesse cose, quelle quattro storie "messe in croce", cercando di variare un po' ogni tanto, mettendoci un aneddoto calzante in più, magari in prestito da qualche altra storia. Così le mie domande sono:
Perché si continua a scrivere?
Chi dobbiamo dilettare oramai?

Quale contributo fattivo diamo alla società inventando storie spesso strampalate?

Qual è il motivo che spinge molti disadattati a metter giù storie senza senso, piene di frustrazione, colme di retorica, affogate di buoni sentimenti o ancor più buoni deliri-minestrone?

Tutto questo lo si può racchiudere in una domanda non scontata e ricca di sottintesi e dubbi antropologici che faccio a ognuno di voi (e quindi anche a me): perché qualcuno, in grado di intendere e volere, dovrebbe sentire la necessità di leggere proprio il tuo libro?
Questa domanda racchiude qualcosa che per qualcuno può rappresentare l'intero universo privato, quasi un perché della propria esistenza. Ed a questi infiniti qualcuno senza faccia va tutta la mia pietà perché, in fondo, sono loro ad aver ragione e a tutti gli altri la consolazione di una vita più vera e più grigia, quasi quanto la mia.
Quindi, perché?


Agostino Palmisano


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