giovedì 11 agosto 2011

"La prostituta di Palermo" di Chiara Ferrari per "Racconti da premio"

Questa settimana vogliamo segnalare un racconto  di Chiara Ferrari, risultato tra gli 8 vincitori del concorso di cover letteraria “E tu ce li hai i numeri?” indetto dalla casa editrice Marcos y Marcos e pubblicato nell’antologia “L’arte di copiare. Almanacco di Letteratura rinnavabile”, Marcos y Marcos, 2010.
E' veramente interessante vedere come il classico manzoniano sia stato riletto e attualizzato mantenendo il senso di drammaticità e profonda dignità del personaggio. Eva, come Gertrude è tiranno e vittima in un mondo saturo di vilolenza, dove a un uomo (o a una donna) non "resta che far torto o patirlo".





La prostituta di Palermo


Sono l’ultima figlia del principe, il principe dei disonesti, malavitoso usurpatore di vite altrui. Il più noto tra gli assassini trafficanti del male in circolazione a Palermo. Non ripeto il suo nome, perché voglio dimenticarmelo. So, però, che l’alta opinione che lui ha sempre avuto del suo titolo, conquistato col sangue dei morti ammazzati, sparso per le strade o nelle case, dentro le macchine dappertutto, gli ha fatto credere che il suo potere fosse una pistola carica, da esplodere sulle facce di quelli che non avevano paura di guardarlo dritto, come dei poveri diavoli senza storia. Allora sì che si sentiva uomo e importante. Non ho idea di quanti siano i miei fratelli, primogeniti o cadetti, le sorelle, i figli bastardi che ha disseminato in giro come bossoli di proietti esplosi e lasciati in terra, a marcire. Mitragliate svelte, colpi secchi, ferite. Tutti destinati all’infelicità questi figli, figli di madri zitte per paura, figli orfani cresciuti nel niente. Tranne me, che sono nata voluta, stabilita con l’ accordo di unire alla sua, la famiglia di mia madre. Il contratto prevedeva un erede, su cui investire per allargare i patrimoni, garantirsi nuovo decoro e privilegi, mantenere il monopolio di traffici disonesti, ingigantire la fama. Eccomi, sono io.

Io, femmina. Che come mia madre, diventerò moglie di qualcuno come lui, venduta al miglior offerente per guadagnarci solo un’eredità d’inferno, da scontare per tutti gli anni che il buon dio mi darà da vivere su questa terra. Per me e per i figli che verranno dal mio ventre. Se fossi nata maschio mi sarei chiamata come lui e avrei ricevuto in dono il suo titolo, oltre al patrimonio tutto, in quanto erede legittimo. Invece, quando sono venuta alla luce, il principe mio padre, volendo darmi un nome che risvegliasse immediatamente l’idea del destino che mi si riservava in quanto femmina, scelse un nome portato dalla prima delle infelici: Eva mi chiamò, per tormentarmi. Irrevocabilmente. Io, maledetta perché donna. Sventurata, perché invece di conservarla intatta in perpetuo avrei diviso e sparpagliato le sue sostanze, la sua dote mafiosa. E infelice mi fece diventare già bambina, vestita da giocattolo nelle mani di uomini tutt’altro che santi a cui lui si raccomandava spesso di adoperarmi con cura, come fossi una cosa, un oggetto prezioso, e sempre con quell’interrogare affermativo: - bella eh? -


Alessandro Manzoni, da I promessi sposi

La monaca di Monza

Era essa l’ultima figlia del principe ***, gran gentiluomo milanese, che poteva contarsi tra i più doviziosi della città. Ma l’alta opinione che aveva del suo titolo gli faceva parer le sue sostanze appena sufficienti, anzi, scarse, a sostenerne il decoro; e tutto il suo pensiero era di conservarle, almeno quali erano, unite in perpetuo, per quanto dipendeva da lui. Quanti figlioli avesse, la storia non lo dice espressamente; fa solamente intendere che aveva destinati al chiostro tutti i cadetti dell’uno e dell’altro sesso, per lasciare intatta la sostanza del primogenito, destinato a conservar la famiglia, a procrear cioè de’ figlioli, per tormentarsi a tormentarli nella stessa maniera. La nostra infelice era ancora nascosta nel ventre della madre, che la sua condizione era già irrevocabilmente stabilita. Rimaneva soltanto da dicidersi se sarebbe stata un monaco o una monaca; decisione per la quale faceva bisogno, non il suo consenso, ma la sua presenza. Quando venne alla luce, il principe suo padre, volendo darle un nome che risvegliasse immediatamente l’idea del chiostro, e che fosse stato portato da una santa d’alti natali, la chiamo Gertrude. Bambole vestite da monaca furono i primi balocchi che le si diedero in mano; poi santini  che rappresentavan monache; e que’ regali eran sempre accompagnati con gran raccomandazioni di tenerli ben di conto, come cosa preziosa, e con quell’interrogare affermativo: - bello eh?

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