Quale simbolo hanno
pensato di colpire, a Brindisi, attaccando una scuola, uccidendo e ferendo
tante ragazze? Difese unicamente dal loro sorriso, dalla loro speranza.
Fiduciose nel futuro e nella società forse più di qualunque adulto. Me lo
chiedo mentre ricordo la mia esperienza, e quella di migliaia di altri
studenti, quando negli anni ’60 frequentavamo, da pendolari, le scuole
superiori o l’università, a Sassari. Procedendo lungo un tortuoso nastro
d'asfalto, che unisce Osilo alla città, i nostri volti erano al solito
allegramente illuminati da canzoni come fossero bandiere, ma anche dai nostri
libri, quasi sorpresi di poterli possedere. Ogni giorno di più mi ritrovavo
felice e orgoglioso di far parte di questa timida avanguardia, una sorta di
nuova infanzia: quella di un paese dopo antiche rassegnazioni. Così che anche i
bastardi potevano sentirsi della partita, far sapere al mondo che c'erano pure
loro.
E adesso -malgrado
la notte, notte di terrore e di morte-, quegli stessi bastardi me li ritrovo
davanti per dirmi che persino la solitudine, quella dei ragazzi di oggi,
possiede il suo fuoco, gelosamente custodito, dentro l'adolescenza e il suo
viaggio, imprevedibile. Attorno a quel fuoco, allora, scalpitavano figli di
spaccapietre, di mugnai e falegnami, figli di muratori, contadini e pastori. Stretti ai loro sogni segreti, lo sguardo
alto nel tentativo di dare un calcio al passato. Anche io, come loro, pregavo che
il tempo mi concedesse di battermi ad armi pari con la vita e con il mondo.
Ma quale vita e
quale mondo certo non lo sapevo. E neppure lo sapevano le ragazze appena scese
dal pullman, a Brindisi, davanti alla loro scuola. Lo sapevamo noi, invece, o
almeno avremmo dovuto saperlo. Esserne comunque consapevoli. E proteggere la
loro innocenza, il loro futuro. Invece, da anni, la nostra scelta sembra andare
in direzione opposta: relegare la scuola, e chi la frequenta -studenti e
insegnanti-, in uno spazio sempre più angusto, insicuro, sempre meno
significante. L’abbiamo sacrificata, indebolita, quasi fiaccata, resa poco e
niente credibile. Insomma, un poco alla volta, quasi senza accorgercene, l’abbiamo
colpita nel profondo.
Ma forse non siamo
ancora riusciti a comprometterla, la scuola, a farla naufragare del tutto. I
giovani hanno risorse inimmaginabili, che a volte ignoriamo, e sottovalutiamo.
E queste risorse, impiegate saggiamente come una risurrezione, o una ribellione
sociale, potrebbero essere considerate una sorta di lievito che salva e
trasforma una farina -la società-, che sta per andare a male. Ma per qualcuno non è affatto una risorsa;
anzi, è un nemico pericoloso. Peggio ancora, è un simbolo, e in quanto simbolo un
soggetto socialmente contagioso, trascinante, dunque un simbolo da colpire. La
farina che non avrà mai il volto e il compito del pane, per qualcuno è il luogo
giusto dove coltivare ogni specie di male, e questo qualcuno non accetta facilmente
che le venga sottratto.
Senza volerlo, i
ragazzi di oggi stanno diventando i nuovi eroi? La scuola un nuovo
risorgimento, una nuova patria? Perché non sappiamo esserlo noi, e nemmeno
sappiamo assumerci le responsabilità -neanche quelle minime-, che ogni cittadino
dovrebbe avvertire dentro di sé. A iniziare dalla consapevolezza che nel
proprio destino c’è anche quello degli altri. Mi auguro che le cose non stiano
proprio così. Altrimenti, vorrebbe dire che la nostra degradazione e la nostra
deriva è ormai senza ritorno. Il naviglio, nel quale siamo imbarcati, ormai
senza direzione. Per di più, è come se i nostri figli si vedessero costretti,
in qualche modo, a fare i genitori. Insomma, a insegnarci qual è il potere dei
simboli e dunque dei gesti, quelli positivi, quelli che producono il nostro
bene, dal momento che noi abbiamo coltivato finora, persino cinicamente,
soltanto i gesti e simboli del potere. Con i risultati che, tragicamente,
abbiamo davanti agli occhi. Chissà se anche, indelebilmente impressi, negli
occhi della coscienza.
Antonio Strinna